Bibliografia Vichiana II

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MICHELET

uomo, inoltre, in cui, « au dessus de tout cela », era « une immense poésie historique, Tinspiration du tombeau de Virgiie, l’écho des deux qui ont chanté les deux antiquités dltalie, Virgiie et Dante, enfin une mélanconique réminiscence de la doctrine etrusque des àges, la pensée d’une rotation régulière du monde naturel et du monde civi), où, sous l’ceil de la Providence, tous les peuples mènent le choeur éternel ». Aggiungeva che nel capolavoro di codest’uomo straordinario sono precorsi a tale punto « tous les travaux de Thistoire moderne » che < tous les géants de la critique tiennent déjà, et à False, dans ce petit pandémonium de la Scienza nuova ». E, come non gli sfuggiva il carattere sostanzialmente anticattolico, anzi antireligioso di questa (v. sopra p. 499), così concludeva col trovare che < l’instine! des adversaires de Vico >, ossia dei suoi critici cattolici, dei quali, se non il Finetti, conosceva Damiano Romano (v. sopra pp. 233-35) e il Colangelo (sopra pp. 476-78), « ne s’y est pas trompé » : sebbene, per essere il libro dedicato a Clemente Xll, « l’apocalypse de la nouvelle Science » potesse essere « placée sur l’autel jusqu’à ce que le temps vini en briser les sept sceaux ». Giudizio, quest’ultimo, tanto più notevole, in quanto, sino a cinque o sei anni dopo avere parafrasato l’opera vichiana, il Michelet era restato fermo nell’opposto preconcetto con cui s’era accinto a volgarizzarla, e cioè nel credere di trovare, e poi d’avere trovato, nell’autore di quella uno strenuo defensor fidei. Non per nulla, anche dopo che a diciotto anni (1816), insoddisfatto dell’ educazione volteriano-rousseauviana impartitagli dal padre, s’ era fatto battezzare, aveva continuato ad avvertire più vivo che mai scrive il Monod il bisogno « d’ une explication du monde plus profonde, plus complexe que celle que pouvaient lui fournir Rousseau et i’Église». Naturale che s’ aggrappasse come ad àncora di salvezza alla Scienza nuova, ove l’antico dissidio tra scienza e fede gli sembrò per un certo tempo conciliato nel modo più perfetto. Ma già nel 1833 racconta egli stesso in due brani autobiografici pubblicati rispettivamente dal Monod e dal Donati cominciò ad avvedersi che, lungi dal raggiungere codesta conciliazione, il Vico non insegna altro se non « comme les dieux se font et se refont», se non « l’art de faire les dieux», se non «la mécanique vivante qui trame le doublé fil de la destinée humaine, la religion et la législation, la foi et la loi », se non che non Dio ma l’uomo « fabrique incessamment sa terre et son ciel». Di certo, non gli sfuggiva che il Vico « fait d’étonnants efforts pour croire qu’il est encore un croyant » e che nell’opera sua il cristianesimo « reste tout seul, comme exception à laquelle il fait la révérence ». Ma ciò non toglie concludeva che, alla stessa guisa di Virgilio, il No-